
Adattamento e interconnessione
Tutte le cose vicine o lontane
segretamente sono legate le une alle altre
e non si può cogliere un fiore
senza disturbare una stella
Gregory Bateson
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“Ciò che caratterizza la vita è il fatto di non essere mai la
stessa: la vita scorre, circola e si trasforma, spostando gli
esseri e le cose. Oggi avevate un problema da risolvere e ci
siete riusciti impiegando un certo metodo; ma ecco che l’indomani
si presenta un altro evento e voi non potete affrontarlo
utilizzando gli stessi metodi e mantenendo lo stesso
atteggiamento del giorno prima: siete costretti ad adattarvi alla
nuova situazione.
È così: la vita vi presenterà sempre problemi diversi da
risolvere, e ciascuno richiederà una soluzione particolare. Ieri,
per esempio, la soluzione consisteva in un gesto di bontà, di
generosità. Oggi invece avete un altro problema da risolvere, e
questa volta ad aiutarvi saranno il ragionamento, la fermezza o
perfino l’ostinazione. Un’altra volta sarà l’indifferenza o la
volontà di dimenticare… Cercate dunque ogni giorno come
adeguarvi. “
Omraam Mikhaël Aïvanhov
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“Dopo un tempo di declino viene il punto di svolta…
… il movimento è naturale, sorge spontaneamente, perciò la trasformazione di ciò che è invecchiato diventa facile. Il vecchio viene rifiutato e da esso subentra il nuovo… (I Ching)”.
“Qualunque sia il limite del Nirvana
quello è il limite dell’esistenza ciclica.
Non c’è nemmeno la più lieve differenza fra loro,
o la cosa più sottile”
“La Pacificazione di ogni oggettivizzazione
e la pacificazione dell’illusione:
Nessun dharma è mai stato insegnato dal Buddha
in nessun tempo, in nessun luogo, a nessuna persona”
(Nagarjuna, Mulamadhyamakakarika 25)
Un giorno morì un uomo che viveva nelle vicinanze del Tempio di Chang Chou. Dogo, il Maestro del tempio, si recò, insieme al suo discepolo Zengen, a fare le condoglianze alla famiglia.
Durante la visita Zengen colpì la bara e chiese: “È vivo o morto?”.
Dogo rispose: “Non dico che è vivo, non dico che è morto”.
Zengen disse: “Perché non vuoi dirlo?”.
Dogo ripetè: “Non lo dirò, non lo dirò”.
Sulla via del ritorno, Zengen chiese ancora: “Vi prego, Maestro, ditemi chiaramente se era vivo o morto. Se non me lo direte io vi picchierò”.
Il Maestro rispose: “Picchiami se vuoi, ma io non lo dirò”.
Zengen lo colpì.
Passarono gli anni e un giorno Dogo morì; Zengen, ancora tormentato dal dilemma, andò a visitare Sekiso, un Maestro molto conosciuto; gli raccontò come molti anni prima avesse picchiato il suo vecchio Maestro perché non aveva risposto alla domanda sulla vita e sulla morte. Poi ripetè la stessa domanda a Sekiso. Sekiso disse: “Non dico che è vivo, non dico che è morto. Non lo dirò, non lo dirò”.
In quel momento Zengen raggiunse l’illuminazione; lasciò subito il Maestro e, con una vanga in spalla, andò nella sala principale del monastero mettendosi a camminare in su e in giù.
Sekiso lo vide e gli chiese: “Che cosa stai facendo?”.
Zengen rispose: “Sto cercando le reliquie del mio vecchio Maestro”.
Sekiso disse: “C’è un grande fiume con immense onde che riempiono l’intero universo. Le reliquie del tuo Maestro non saranno trovate in nessun posto.”
[…]
Commento del Maestro Philip Kapleau[1]
Che cosa sta realmente chiedendo Zengen?
Ovviamente lui sa che la persona che è nella bara è morta. Quindi qual è la vera domanda? Forse è: “Che cosa accade dopo la morte?” o “Che cos’è la morte?” o “Che cosa accadrà di me dopo la morte?” o “Esiste veramente la morte?” o “Se quest’uomo è morto, allora che cos’è l’immortalità?”.
Forse il suo tormento interiore – quello che veramente gli sta a cuore, come il suo comportamento successivo dimostra – si sviluppò o si intensificò recitando il Sutra del Cuore: “…niente nasce e niente muore, niente è puro e niente è impuro, niente cresce o diminuisce. Niente deperisce e niente muore e non esiste né deperimento né morte”.
Che cosa vogliono dire queste parole?
Noi, come ogni praticante dello Zen, recitiamo tutti giorni questo grande Sutra. Bene, che cosa significano realmente queste parole?
Zengen era profondamente turbato dal problema della vita e della morte. Ma, in ultima analisi, non è così per tutti? Il nostro comune modo di vivere, tuttavia, nasconde l’ansia esistenziale con innumerevoli mezzi: cinema, televisione, video, computer, settimanali, quotidiani, shopping. Abbiamo a disposizione un numero talmente ampio, per non dire illimitato, di modi per distrarci, per non pensare, che dovremmo essere al riparo; ma non è così; le ansie esistenziali sono così forti che superano facilmente il muro dietro cui tentiamo di proteggerci.
L’antica credenza nell’armonia delle sfere celesti è stata distrutta dall’evidenza delle catastrofi che avvengono normalmente e casualmente nello spazio cosmico. Lo stesso accade a noi, qui sulla terra; siamo quotidianamente colpiti da notizie di morte di esseri viventi, di distruzione di foreste, di inquinamento dell’atmosfera e dei mari, di orribili pulizie etniche e cresce il terrore di destabilizzazioni politiche ed economiche prodotte, almeno in parte, dalla rapida e stupefacente evoluzione tecnologica. Quando, ogni giorno, apriamo il giornale, l’impermanenza ci colpisce in volto. Le nostre distrazioni, i nostri meccanismi di difesa, si moltiplicano allora di conseguenza, rendendo così arduo affrontare le vere questioni esistenziali e, in particolare, l’eterno dilemma che assedia tutta l’umanità: perché sono nato?
[…]
Possiamo dire che questo koan [2] era il suo koan, che naturalmente cresceva nel suo animo; un koan che sorge spontaneamente dalle esperienze della propria vita può essere il migliore per raggiungere la comprensione. Ovviamente il Maestro era consapevole della profondità della domanda di Zengen e non volle cedere di fronte alla sua sofferenza, non lo volle placare con una risposta rassicurante. Non gli ha detto: “Non ti preoccupare. Tutto va bene. La tua rinascita sarà influenzata dagli effetti karmici delle tue azioni passate, mentali o corporee” ma gli ha detto: “Non dico che è vivo, non dico che è morto”.
Perché no?
Il suo discepolo era fortemente turbato dalla questione della nascita e della morte, in particolare su che cosa accade dopo che uno muore.
Una volta un monaco chiese al Buddha: “Che cosa accade a una persona illuminata dopo la morte? Esiste dopo la morte o no?”. Il Buddha si rifiutò di rispondere.
Un illuminato è una persona che ha purificato la propria mente a tutti i più profondi livelli di consapevolezza, liberandola da ogni macchia di avidità, di rabbia, di egoismo e desiderio. Così, che cosa accade a un tipo del genere dopo la morte? Accade la stessa cosa che agli altri? Il testo dice che Buddha “rimase in un nobile silenzio”. C’è una buona ragione per un tipo di risposta del genere, e il koan lo rende molto chiaro.
Sulla via del ritorno Zengen era ancora molto agitato. La domanda tormentava la sua mente. Egli aveva visto un cadavere nella sua rigidità. L’immagine era vivida. Dov’era finito colui che era nel corpo? “Perché non lo dici?” domandò al suo insegnante. E Dogo ripetè enfaticamente: ”Non lo dirò, non lo dirò”. Zengen lo implorò “Vi prego, Maestro, ditemi con franchezza se era morto o era vivo!”.
Allora, disperato, gridò:“Se non me lo direte, vi picchierò”. In questo si può vedere quanto profondamente sentisse la questione e che rischi era disposto a correre. Picchiare la propria guida spirituale è fatto molto grave, con profonde implicazioni karmiche. Uno studente può alzare una mano mimando di colpire il Maestro, per esempio, nel dare una dimostrazione di un koan. Ma è raro che uno studente picchi davvero il proprio Maestro ed è considerato un evento molto grave.
Yasutani Roshi disse una volta che se un monaco dovesse picchiare il Maestro ciò avrebbe delle gravi ripercussioni su tutto il monastero. Ma Dogo rimase imperturbabile di fronte alle minacce di Zengen e semplicemente rispose: “Picchiami se vuoi ma non lo dirò”.
[…]
Proviamo a immaginare un insegnante di oggi che a uno zelante studente che gli chiede una spiegazione su qualcosa di importante, risponda: ”Non te lo dirò”. Verrebbe considerato un’offesa allo studente e in contrasto con il nostro concetto di educazione.
“Ma voi siete il Maestro!” potrebbe esclamare lo studente “Il vostro lavoro è rispondere alle domande! Perché non volete rispondere alla mia?” Ma Maestri Zen come Dogo e Sekiso dicono “Tu puoi picchiarmi, tu puoi anche uccidermi ma io non lo spiegherò. Tu devi risolvere questo da solo. Non ti priverò della lotta interiore che ti appartiene e della tua personale risposta”.
Giobbe, il patriarca della Bibbia, che soffrì a lungo tormenti di questo tipo, dette una risposta simile. Tutte le sue profonde, laceranti domande sarebbero state lasciate irrisolte da una risposta convenzionale. Soltanto la diretta esperienza della voce di Dio che parlò attraverso il turbine risolse i suoi dubbi. Solo quella rispose a tutto.
I praticanti Zen di ogni epoca hanno espresso una profonda gratitudine ai propri Maestri per aver avuto la saggezza e la compassione di non spiegare troppo. Questa gratitudine non era mero “formalismo” e sorse nel loro cuore dopo una lunga e durissima lotta interiore. Il Maestro Zen Dogen dice, in effetti, che il Buddismo non è altro che affrontare e risolvere il problema della morte. Lo Zen ci insegna come andare oltre i concetti e le nozioni ordinari, oltre le interpretazioni dei dati dei sensi che costruiscono una visione del mondo basata su “me qui e ogni altra cosa là fuori”. Questa visione è incompleta e falsa. Poiché è falsa e incompleta, noi soffriamo terribilmente, come può soffrire un pesce in una vasca troppo piccola e piena di acqua stagnante e torbida. I Maestri di molte tradizioni sono d’accordo che il nostro mondo, il mondo nel quale viviamo normalmente è, come dice il sutra del Diamante, come un miraggio, un sogno, una bolla di sapone. Ovvero non ha sostanza, tutto passa e non ha realtà durevole.
Questo mondo di nascita e morte muta costantemente. La pratica e lo studio dello Zen ci insegnano come non essere coinvolti e avvinti in questo eterno cambiamento, fino a precipitarci. Come vivere nel mutamento costante e adattarsi liberamente al nostro ambiente, senza sforzi, costrizioni, o ansietà è l’essenza dello studio e della comprensione Zen. Il buddismo Zen non è né pessimista né nichilista. Piuttosto guarda correttamente ai fatti, e poi ci apre la via per vivere veramente, senza ricreare continuamente sofferenza.
Ancora, l’insegnamento del buddismo riguardo la rinascita può essere mal compreso dalla cultura materialista del nostro tempo. Il buddismo insegna che siamo morti e rinati innumerevoli volte e che moriremo e rinasceremo ancora innumerevoli volte. Negli scritti dei Maestri viene detto che possiamo nascere in uno dei sei regni: il regno degli uomini, degli dei, degli spiriti guerrieri, degli spiriti affamati, degli esseri demoniaci, degli animali. Possiamo nascere in un regno o nell’altro, in una forma di vita “alta” o “bassa”. Qualche volta questo viene interpretato psicologicamente. Nella mia esperienza in Giappone ho constatato che i Maestri più anziani erano meno inclini a una spiegazione psicologica. Tendevano a un’interpretazione prettamente mitica, accettando pienamente che ci sono molti mondi, dimensioni e regni. Gli insegnanti più giovani tendevano invece a darne una lettura psicologica. In realtà, la questione non è se l’approccio al problema è psicologico, mitico, fisico o da altro punto di vista. Si arriva sempre allo stesso punto: in verità, tutto è in costante cambiamento. E, tuttavia, dentro quel cambiamento c’è sia quello che non cambia sia quello che rende possibili tutti i cambiamenti. Questo non è qualcosa che accade solamente dopo la morte, dopo quello che chiamiamo la scomparsa del corpo fisico. In ogni momento, in ogni respiro, c’è la vita e c’è la morte. Nella vita c’è la morte, nella morte c’è la vita. La vita intera si ricrea dalla propria fine. Tutta la vita è rinascita. Come allora possiamo parlare di una vita e di una morte definitiva? Dogen dice che nella vita c’è solo vita, nella morte solo morte. Così, quando voi siete vivi, voi siete uno con la vostra vita; nella morte voi siete uno con la vostra morte. Prendete una candela che brucia: bruciare è sia la sua vita sia la sua morte.
Perché Zengen, dopo l’illuminazione, porta con sé una vanga sulla spalla e cammina in su e in giù nella sala principale del tempio? Che significa questo? Voleva onorare le spoglie del suo Maestro, mostrare gratitudine per quello che Dogo aveva provato così risolutamente a mostrargli? Sekiso lo vede marciare avanti e indietro e gli chiede “Che stai facendo?”, Zengen risponde “Sto cercando le reliquie del mio vecchio maestro”.
[…]
Sekiso risponde “C’è un grande fiume con immense onde che riempiono tutto l’universo. Le ceneri del Maestro non saranno trovate da nessuna parte”.
Come dobbiamo comprendere questo?
Ci sono delle collane buddiste utilizzate per il rosario, chiamate juzu, che sono scolpite nella forma di un teschio. I teschi rappresentano la vera Mente, che, come un teschio, rimane dopo la morte. Il teschio rappresenta anche la realtà della morte, dell’universale impermanenza. Il teschio è veramente un’immagine concentrata essendo sia un simbolo di ciò che possiamo chiamare l’aspetto relativo della morte e del cambiamento sia anche di quello che possiamo chiamare l’Assoluto, il non nato, l’eterno.
Dicendo che sta cercando le ossa o le reliquie del suo vecchio Maestro, quello, cioè, che rimane dopo la morte e la cremazione del corpo, Zengen ci sta suggerendo che la Mente del suo Maestro deve ancora essere trovata? Sta dicendo che le sue reliquie sono effettivamente in ogni luogo, in tutte le direzioni? ”Immense onde riempiono l’intero universo” può simbolizzare la nostra vita quotidiana. Ogni onda riempie l’immensità di ogni cosa. Cosa c’è fuori di essa? Essere uno con la propria vita quotidiana, mangiando, piangendo, lavorando, dormendo, amando, facendo ogni cosa con un cuore puro, con mente pura, è una grande onda che riempie l’universo, fino alle stelle. Questa non è una teoria, non è un’astrazione, passato, presente, futuro, non è una valutazione. E’ questo! Che cosa c’è da cercare ancora!
[…]
Per dimostrare la propria comprensione di un koan non si può parlare di esso. Non si può fare della teoria. Si deve dimostrare lo spirito del koan, che, in questo caso, significa lo spirito della nascita e della morte. Questo koan, possiamo dire, è solo uno fra i molti che trattano del problema cruciale della vita e della morte e che dimostra lo spirito fondamentale dello Zen.
Non è tanto importante quanto noi possiamo provare ad accettare che il morire è una cosa semplice, ordinaria, naturale, quanto possiamo credere che sia una alta esperienza spirituale – “una conclusione che dovremmo augurarci a mani giunte” – come Shakespeare fa dire ad Amleto – noi tutti, se siamo onesti con noi stessi, dobbiamo ammettere che ne abbiamo paura. E’ un territorio sconosciuto, come dice Amleto, dal quale nessuno è tornato. E’ la fine di tutto quello che conosciamo, di tutto quello che sogniamo o a cui siamo attaccati.
E così può essere terrificante.
Anche il Maestro Mumon, nel suo commento al koan numero trentacinque del Mumonkan, intitolato “Sei e la sua anima sono separati”, dice che noi passiamo da un minuto all’altro, da un giorno all’altro, da una vita all’altra come un viaggiatore passa da un albergo a un altro o come una fiamma che attraversa, bruciandoli, differenti fastelli di legna, rimanendo però sempre se stessa. Così è che questa energia, che chiamiamo “nostra”, continua a manifestarsi prendendo così molte forme. Allora Mumon aggiunge che se noi non sappiamo realmente questo – cioè ne facciamo diretta esperienza – noi saremo al momento della morte come un granchio dentro l’acqua bollente. E’ una immagine orribile – tutte queste gambe che si contorcono senza controllo.
Mumon conclude: ”Non dire che non ti avevo avvertito”.
Carl Jung, l’eminente psicologo, scrisse che non aveva mai avuto un paziente oltre i quaranta anni per il quale il reale problema non fosse radicato nella paura di morire – ovvero per cui il riconoscimento della necessità di lasciare ciò che aveva conquistato con difficoltà, di lasciare la vita, non fosse l’ostacolo reale alla pace della mente. Ognuno può sentire molti discorsi riguardo la vita e la morte e leggere molti libri ma fino a quando non si ha una qualche esperienza della continuità della vita, di quello che è al di là della vita e della morte eppure non è separato da esse, permane necessariamente una certa vulnerabilità. La potenza trasformativa e liberatoria di questa verità esperenziale è al cuore di questo koan.
Naturalmente, più si ascolta riguardo il tema della rinascita, più facilmente si può accettare l’idea di una eterna continuità. Più uno legge riguardo l’esperienza della Vera Natura, più un qualche senso del reale contesto può entrare dentro di lui. Così ascoltare e partecipare a conferenze, impiegando tempo a leggere, può essere d’aiuto fino a quando la nostra personale esperienza potrà confermarlo. Tuttavia, una tale fiducia intellettuale, per quanto utile, è limitata. Non ci eviterà di svegliarci nel cuore della notte con la terribile consapevolezza che la mattina non farà altro che avvicinarci di un giorno alla ineludibile realtà della nostra propria inevitabile morte.
Lo Zen è al cuore dell’insegnamento del Buddha e come tale ha a che fare con il più importante problema dell’essere, la nascita e la morte, un mistero che ogni essere umano deve risolvere. Alla gente non è data la possibilità di scegliere se occuparsi o meno di questo. E’ la nostra natura, la natura della vita, che ci obbliga ad affrontare questi problemi. E’ l’insegnamento degli insegnamenti, perchè è inevitabile. Per quanto noi possiamo desiderare di evitarlo, non possiamo. I koan non sono, come molti pensano, enigmi bizzarri. Essi ci indirizzano alla realtà, all’eterna verità, alla nostra vita quotidiana. Essi rivelano l’insegnamento fondamentale del Buddha, che era un grande pragmatico. Egli non inventava le verità. Egli sperimentava e insegnava su quello che aveva sperimentato. Ma i koan rivelano queste verità in un modo unico e creativo. Piuttosto che descrivere semplicemente o parlare di esse, i koan ci spingono a sperimentare da noi stessi queste verità. E ci spingono a sentire e vivere questa esperienza. Piuttosto che aumentare la nostra conoscenza, essi ci trasformano.
Dobbiamo essere molto grati per i semplici misteri che sono al cuore del vivere e del morire; e dobbiamo essere riconoscenti per la pratica e per gli insegnamenti che abbiamo potuto conoscere.
Ma se voi mi chiedeste: “Quanto?” o “Perché?” io potrei soltanto rispondere: “Non lo dirò, non lo dirò”.
Traduzione di Massimo Squilloni Shido[3].
Philip Kapleau (1912-2004), americano, studia legge diventando cronista giudiziario. Segue i lavori del Tribunale Militare Internazionale di Norimberga e poi i processi per crimini di guerra in Giappone. Gli orrori della guerra provocano in lui una profonda crisi esistenziale; si avvicina allo Zen attraverso le lezioni di filosofia buddista tenute da Daisetz Suzuki alla Columbia University. Nel 1953 diventa discepolo del Maestro Zen Hakuun Yasutani con il quale pratica in Giappone per oltre tredici anni. Nel 1966 ritorna negli Stati Uniti e fonda il Rochester Zen Center di New York. Autore di libri di grande successo, che hanno contributo ad avvicinare europei e americani allo Zen (fra gli altri, I tre pilastri dello Zen, La nascita dello Zen in Occidente, ambedue pubblicati da Ubaldini Editore), è stato una delle figure di riferimento dello Zen occidentale.
Note
1] P. Kapleau commenta il caso (koan) n. 55 di uno dei classici dello Zen: “La Raccolta della Roccia Blu”.
2] In cinese la parola koan aveva il significato di “caso pubblico”, con valenza giuridica; nello Zen, in particolare nello Zen Rinzai, il koan è utilizzato come pratica di meditazione e mezzo di realizzazione della propria natura; può avere diverse strutture: un dialogo tra discepolo e Maestro, una singola frase o una parte di un discorso di un Maestro, brani dai Sutra o da altri insegnamenti. Logicamente impenetrabile, il Koan nasconde in sè la visione Zen di un aspetto della vita dell’uomo; sta al discepolo dimostrare al Maestro, nel corso di incontri one to one, lo spirito del koan, il suo significato segreto.
3] Ringrazio Stephen Bush e Paola Di Felice per i suggerimenti nella traduzione; grazie anche a Marco Di Stasio, autentico “Maestro di Office”.
http://www.zenshinji.org/home/?p=220
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