La voce interiore – Il nostro tesoro
Quattro santi uomini, avendo fatto naufragio su una landa deserta dell’Africa, vagarono diversi giorni senza trovare cibo. Allo stremo delle forze, decisero di chiedere aiuto a Dio; per rafforzare la loro richiesta, s’impegnarono in solenni promesse: il primo promise che avrebbe osservato il più stretto digiuno, il secondo che non avrebbe mai più guardato una donna, il terzo che avrebbe recitato in continuazione i versetti del Corano. Il quarto disse semplicemente: “Non mangerò mai carne d’elefante.” Gli amici si sentirono offesi da questa assurda promessa: e chi mai mangia carne d’elefante? Voleva prendersi gioco di loro? O addirittura di Dio? L’uomo rispose: “Niente affatto. Ho solo sentito una voce interiore che mi ha quasi obbligato a parlare così. Io non ne posso nulla, Dio mi è testimone.” Dopo aver vagato per giorni e giorni, distrutti dalla fame, avvenne che trovarono un elefantino di poche settimane. Benchè controvoglia, lo uccisero, avevano assoluto bisogno di un po’ di nutrimento; lo arrostirono e si cibarono della sua carne. Tutti, tranne colui che aveva fatto l’ultima promessa: “Forse Dio – disse – mi ha spinto alla mia decisione perché vuole che io muoia. Non mancherò comunque alla mia parola con lui.” Terminato il pasto, si misero a dormire. E mentre dormivano, sopravvenne l’elefantessa, la madre dell’elefantino. Li annusò uno per uno, uccidendo senza pietà i tre da cui proveniva odore di elefante arrosto. Solo colui che non se n’era cibato si salvò. Venne anzi afferrato dalla proboscide dell’elefantessa e portato in un’oasi dove potè sfamarsi di datteri e dissetarsi con acqua di sorgente. Così è di colui che ascolta la voce interiore senza discuterla.
E’ un breve aneddoto sul rabbino Eisik, figlio del rabbino Jekel, che viveva nel ghetto di Cracovia, l’antica capitale della Polonia. Incrollabile nella sua fede, attraverso anni di sofferenza, era rimasto uno zelante servitore del Signore, suo Dio. Una notte, il pio rabbino Eisik ebbe un sogno; questo sogno gli ingiungeva d’andare lontano verso la capitale della Boemia, Praga, dove avrebbe scoperto un tesoro nascosto, sepolto sotto il grande ponte che conduceva al castello dei re di Boemia. Il rabbino, sorpreso, rinviò la partenza; ma il sogno si ripeté altre due volte. Al terzo richiamo, si preparò coraggiosamente e partì alla ricerca. Giunto a destinazione, il rabbino Eisik trovò il ponte sorvegliato giorno e notte da sentinelle; tanto che non osò scavare. Ritornava tutte le mattine e gironzolava nei dintorni sino a notte, guardando il ponte, osservando le sentinelle, studiando senza farsi notare la costruzione e il terreno. Alla lunga però, il capitano delle guardie colpito dall’insistenza del vegliardo, s’avvicinò e domandò gentilmente se aveva perso qualcosa o se, forse, attendeva l’arrivo di qualcuno. Il rabbino Eisik raccontò con semplicità e fiducia il sogno che aveva fatto; l’ufficiale, arretrando d’un passo, scoppiò a ridere. “Davvero, pover’uomo!” disse il capitano, “hai consumato le scarpe a percorrere tutta questa strada semplicemente a causa d’un sogno? Quale persona ragionevole crederebbe a un sogno? Guarda, se avessi dato retta ai sogni, farei in questo momento proprio il contrario di ciò che fai tu. Avrei intrapreso un pellegrinaggio altrettanto stupido del tuo, ma in direzione opposta, e, senza alcun dubbio, con lo stesso risultato. Lascia che ti racconti il mio sogno.” Era un ufficiale cordiale, a dispetto del suo aspetto arcigno, e il rabbino provava della simpatia per lui. “Ho inteso una voce in sogno”, disse l’ufficiale cristiano della guardia di Boemia, “essa mi parlava di Cracovia, ordinandomi di andare laggiù e di cercare un gran tesoro in casa d’un rabbino il cui nome era Eisik, figlio di Jekel. Il tesoro doveva trovarsi in un angolo polveroso, interrato dietro al focolare. Eisik, figlio di Jekel!”, e il capitano rideva nuovamente, con gli occhi che brillavano. “Immagina un po’: andare a Cracovia, abbattere i muri di ogni casa del ghetto dove metà della gente si chiama Eisik e l’altra metà Jekel! Eisik, figlio di Jekel; buona questa!” E rideva sempre più della meravigliosa facezia. Il rabbino ascoltava avidamente, senza dare nell’occhio, poi, inchinandosi profondamente e ringraziando l’amico straniero, s’affrettò a ritornare direttamente verso la patria lontana; scavò nell’angolo abbandonato della casa e scoprì il tesoro che mise fine alla sua miseria. Con una parte del denaro fece innalzare un altarino che porta ancor’oggi il suo nome. Così dunque, il vero tesoro, quello che mette fine alla nostra miseria e alle nostre prove, non è mai molto lontano, non occorre cercarlo in un paese lontano; esso giace sepolto nei recessi più intimi della nostra casa, ossia del nostro essere. E’ dietro al focolare, il centro donatore di vita e calore che governa la nostra esistenza, il cuore del nostro cuore – se solo sapessimo scavare. Ma vi è il fatto strano e costante che è solo dopo un pio viaggio in una regione lontana, in un paese straniero, in una nuova terra, che il significato di questa voce interiore che guida la nostra ricerca potrà rivelarsi. E, a questo fatto strano e costante, se ne aggiunge un altro, ossia che colui che ci rivela il senso del nostro messaggio interiore dev’essere anche lui un estraneo, d’un’altro credo e d’un’altra razza. Il capitano boemo, sul ponte, non crede alle voci interiori né ai sogni, e tuttavia procura al viaggiatore venuto da lontano, la cosa stessa che termina le sue tribolazioni e ricompensa la sua ricerca. Questa cosa meravigliosa non la fa neppure di proposito, al contrario, è inavvertitamente che egli concede il suo importante messaggio, mentre esprime la sua opinione personale sulla faccenda. Allo stesso modo, i miti e i simboli hindù, e gli altri segni di saggezza venuti da lontano, ci parleranno del tesoro che ci appartiene. Dovremo dissotterrarlo dai cantucci dimenticati del nostro essere. Allora esso segnerà il termine delle nostre pene e ci permetterà di erigere per il bene di tutti quelli che ci stanno intorno un tempio allo Spirito vivente.
Da “Mythes et symboles dans l’art et la civilisation de l’Inde” – di Heinrich Zimmer – Payot, Paris – 1951 – pag. 208
The inner voice – our treasure
Four holy men, having been shipwrecked on a deserted Africa wandered for several days without finding food. At the end of their tether, they decided to ask for help from God to strengthen their claim, were involved in solemn promises: the former promised that it would comply with the strictest fasting, the second that would never looked at a woman who was to play in the third continuation of the verses of the Koran. The fourth said simply: “Do not ever eat meat of an elephant.” The friends were offended by this absurd promise, and who never eat meat elephant? He wanted to make fun of them? Or even of God? The man replied: “Not at all. I just heard an inner voice that he almost obliged to talk like that. I can not hold anything, God is my witness. “ After wandering for days, destroyed by hunger, they found a baby elephant that was a few weeks. Though unwillingly, they killed him, had absolute need of a bit ‘of food, the roasted and cibarono of his flesh. All, except one who had the last promise: “Perhaps God – he said – pushed me to my decision because he wants me to die. I will not fail however to my word with him. “ After the meal, they went to sleep. And while they were sleeping, there came the elephant, the mother elephant. Sniffed them one by one, without killing pity the three from which came the smell of roasted elephant. Only the one that he had not cibato escaped. It was indeed seized and taken to the elephant dell’elefantessa an oasis where he could eat and drink with dates of spring water. So is he who hears the inner voice without question.
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reggio calabira
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